lunedì 28 marzo 2011

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Non si tratta di credere o non credere alle coincidenze. Il mondo è tutto un caso. Il mio amico diceva che chi viaggia in treno il mondo non è un caso, anche se il treno sta attraversando territori sconosciuti al viaggiatore. Non è un caso neppure per chi si alza alle sei del mattino morto di sonno e va al lavoro. Per chi non ha altra scelta che alzarsi e aggiungere altro dolore al dolore che ha già accumulato. Il dolore si accumula, è un dato di fatto, e quanto più grande è il dolore, minore è il caso.
Il caso non è un lusso, è l’altra faccia del destino e anche qualcos’altro. Il mio amico credeva nell’umanità, e quindi credeva nell’ordine della pittura e nell’ordine della pittura e nell’ordine delle parole. Credeva nella redenzione. Il caso, al contrario, è la libertà totale a cui ci avvia la nostra stessa natura. Il caso non obbedisce a leggi e se anche obbedisse noi non le conosciamo. Il caso, è come Dio, un Dio che si manifesta ogni secondo sul nostro pianeta. Un Dio incomprensibile con gesti incomprensibili rivolti alle sue creature incomprensibili. In quest’uragano, in questa implosione ossea, si realizza la comunione. La comunione del caso con le sue tracce e la comunione delle sue tracce con noi.
La verità è che la tua ombra scompare e tu, sul momento, la dimentichi. E così arrivi, senz’ombra, su una specie di palcoscenico e ti metti a tradurre o a reinterpretare o a cantare la realtà. Il palcoscenico in effetti è un proscenio e in fondo al proscenio c’è l’entrata di una miniera, diciamo che è una caverna. Dalla bocca della miniera escono onomatopee, fonemi curiosi o seducenti, ma di sicuro nessuno vede per davvero la bocca della miniera. Una macchina, un gioco di luci e ombre, una manipolazione nel tempo, sottrae il vero profilo dell’entrata allo sguardo degli spettatori. In realtà, solo gli spettatori che si trovano più vicini al proscenio, attaccati alla fossa dell’orchestra, possono vedere i contorni di qualcosa oltre la fitta rete mimetica; gli altri spettatori non vedono nulla al di là del proscenio e si potrebbe dire che nemmeno hanno interesse a vederlo.
L’uomo primitivo ignorava il linguaggio: comunicava grazie a emissioni della mente, come fanno gli animali e le piante. Quando fece ricorso ai suoni e alle espressioni e ai movimenti delle mani per comunicare, iniziò a perdere il dono della telepatia, cosa che si aggravò quando si chiuse nelle città allontanandosi dalla natura.
La vita di una qualunque delle stelle che si potevano contemplare durava milioni di anni oppure, nel momento in cui la contemplavi, poteva essere morta da milioni di anni. A volte, secondo come si guardava la cosa, la questione era priva di importanza, perché le stelle che uno vede di notte vivono nel regno dell’apparenza. Sono apparenza, nello stesso modo in cui sono apparenza i sogni. In realtà, quando uno parla di stelle, lo fa in senso figurato. Si chiama metafora. Uno dice: è una stella del cinema. Sta usando una metafora. Uno dice: il cielo è pieno di stelle. Le metafore sono il nostro modo di perderci nelle apparenze o di restare immobili nel mare delle apparenze. In questo senso una metafora è come un salvagente!
Il movimento apparente è l’illusione di movimento provocata dalla persistenza delle immagini sulla retina. Le immagini rimangono sulla retina una frazione di secondo. Chi l’aveva scoperta era stato un francese al nome di professor Plateau, il quale scoperto il principio, si era lanciato a fare esperimenti con vari apparecchi costruiti da lui stesso allo scopo di creare effetti di movimento mediante la successione d’immagini fisse passate ad alta velocità. Era nato così lo zootropio: un disco magico. In un certo senso abbiamo tutti milioni di dischi magici che fluttuano o girano dentro il cervello!
Ad esempio: un ubriacone che rideva. Era disegnato su una faccia del disco. Sull’altra faccia era disegnata una cella, o meglio le sbarre di una cella. Quando facevo girare il disco, l’ubriacone rideva in prigione. Eppure l’ubriacone rideva, forse perché lui non rendeva conto di essere in prigione. L’ubriacone ride perché crede di essere libero, ma in realtà è dentro una prigione, il divertimento sta lì, ma la verità è che la prigione è disegnata sull’altra faccia del disco, per cui possiamo anche affermare che l’ubriacone ride perché noi crediamo che sia in prigione, senza renderci conto che la prigione è su una faccia e l’ubriacone sull’altra, e che la realtà è questa. Di fatto potremmo addirittura intuire di cosa ride l’ubriacone: ride della nostra credulità, cioè ride dei nostri occhi.
La quarta dimensione contiene le altre tre dimensioni e conferisce loro, incidentalmente, il loro valore reale, cioè annulla la dittatura delle tre dimensioni, e annulla pertanto, il mondo tridimensionale che conosciamo e in cui viviamo. La quarta dimensione è la ricchezza assoluta dei sensi e dello Spirito. E’ l’Occhio che si apre e annulla gli occhi, che confrontati con l’Occhio sono appena due poveri orifizi di fango, fissi nella contemplazione o nell’equazione nascita-apprendistato-lavoro-morte, mentre l’Occhio risale il fiume della filosofia, dell’esistenza e del destino.
L’apparenza era una forza di occupazione della realtà, viveva nelle anime della gente e anche nei suoi gesti, nella volontà e nel dolore, nel modo in cui ordina i ricordi e nel modo in cui ordina le priorità. L’apparenza proliferava, dettava norme, si ribellava contro le sue stesse norme. Amare è in linea di massima un’altra apparenza, ma l’amore, l’amore in senso banale, l’amore di coppia, con colazioni e cene, con gelosie e soldi e tristezza, è teatro cioè apparenza. La giovinezza è l’apparenza della forza, l’amore è l’apparenza della pace.
La nozione di destino non era separabile dal destino di un individuo, anzi che erano in sé la stessa cosa: il destino, materia inafferrabile fino all’irrimediabile, era la nozione del destino che ciascuno aveva di sé stesso.

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